Quante volte vi sarà capitato di imbattervi in rappresentazioni cinematografiche o racconti distopici trattanti la manipolazione della memoria, per poi chiedervi: e se questa roba fosse vera come in una puntata alla Black Mirror (episodio 3 “Brutti ricordi”)? Oggi, grazie alle evidenze sperimentali nei campi delle neuroscienze cognitive ed affettive, è possibile affermare che la manipolazione dei ricordi è una pratica che può essere realmente attuata producendo modificazioni del contenuto mentale e dell’attivazione cerebrale; attraverso questo articolo cercheremo di capire quali sono i metodi per manipolare la memoria e qual è il grado di manipolazione realmente attuabile tale da produrre cambiamenti neurocognitivi.
Innanzitutto, bisogna fare la seguente premessa. Quando nella letteratura scientifica si parla di manipolazione dei ricordi si ha come oggetto ciò che viene immagazzinato nella memoria a lungo termine (MLT), che rappresenta uno dei tre macrosistemi della memoria, insieme alla memoria sensoriale (MS) e alla memoria a breve termine (MBT), (figura 1). La MLT a sua volta si divide nella memoria implicita (non-dichiarativa), che brevemente riassumeremo come l’insieme di tutte le memorie inconsce riguardanti abilità e skills consolidate, e la memoria esplicita (dichiarativa), che invece si occupa di immagazzinare eventi vissuti (memoria episodica/autobiografica) ed informazioni semantiche riguardo la realtà (memoria semantica). Nel seguente sezione dell’articolo faremo riferimento soltanto alla memoria dichiarativa[1].
Inoltre, bisogna fare un’ulteriore differenziazione tra la memoria episodica, che raccoglie eventi del passato riguardanti diversi domini, e la memoria autobiografica che invece raccoglie eventi ed informazioni circa la propria storia personale; magazzini di memoria che co-operano attivamente ma non medesimi (Gilboa, A., 2004).
L’assunto principale che ha portato diversi esperti ad occuparsi di manipolazione della memoria è che gli esseri umani non codificano e recuperano le memorie a blocchi, bensì mettono in atto un processo di ricostruzione del ricordo facilmente soggetto all’errore (Brewer, 1986; Schacter, 2013). Dunque, avere un sistema di memoria ricostruttivo e flessibile può sviluppare ricche e coerenti memorie di eventi che non si sono mai verificati (Bernstein & Loftus, 2009). Con riferimento specifico alla memoria autobiografica, è stato dimostrato che alcune tecniche suggestive (i.e. paradigmi sperimentali) possono indurre a ricostruire falsi ricordi nella memoria altrui (Loftus & Bernstein, 2005); tra queste le più famose sono “lost-in-the-mall”, “familial-informant false narrative”, or “memory implantation”. Tali paradigmi si basano sul presupposto di far credere ai partecipanti che il compito a cui si sottoporranno valuterà la loro capacità di riconoscere e rievocare eventi della loro infanzia, precedentemente suggeriti dai familiari dei soggetti partecipanti.
La manipolazione sperimentale consiste nell’inserire nell’iter di ricordi presentati ai soggetti un falso ricordo in modo da valutare, attraverso dei test standardizzati, il grado di accettazione e ricostruzione dell’episodio; i soggetti sono sottoposti alla stessa procedura sperimentale più volte nell’arco di una settimana per verificare il grado di assimilazione nel tempo del falso ricordo. Una recente mega-analisi condotta da Scoboria (2016), raccogliente gli 8 studi sperimentalmente più accurati in letteratura (con un totale di 423 soggetti), ha dimostrato che più di un terzo dei soggetti (30.5%) riferisce accettazione ed un’ottima ricostruzione del falso ricordo (riportando svariati dettagli); un altro 23% accettava con un certo grado di sicurezza la suggestione come vera, ma senza l’aggiunta di dettagli; il 10.4% dei soggetti dichiarava di avere delle rappresentazioni, ma nessuna memoria dell’accaduto; il restante 36.2% rifiutava completamente il ricordo. Dunque, lo studio dimostrava che l’utilizzo di specifiche tecniche suggestive può implementare falsi ricordi in una buona percentuale della popolazione.
Ma cosa succede nel nostro cervello quando la mente costruisce un falso ricordo indotto? Più specificatamente, quali aeree cerebrali si attivano maggiormente durante il recupero di false memorie?
Per rispondere a tale domanda prenderemo in analisi una ricerca sulla memoria episodica condotta da Kurkela e Dennis (2016) che ha raggruppato 34 precedenti studi sperimentali che prevedevano il completamento di un compito di immagazzinamento e successivamente di recupero/riconoscimento di informazioni, mentre l’attività cerebrale dei soggetti veniva misurata con uno strumento di risonanza magnetica funzionale (fMRI). Dei molteplici compiti sperimentali, spiegheremo soltanto il paradigma più famoso, il compito Deese–Roediger–McDermott (DRM), poiché i restanti sono delle variazioni che si basano sugli stessi principi investigativi.
Nel seguente compito viene chiesto ai soggetti di memorizzare una lista di parole (e.g. infermiera, flebo, ricovero, ambulanza, medicine, …) legate semanticamente ad una parola tema (e.g. ospedale). Nella successiva fase di test, ai soggetti viene chiesto di rievocare le precedenti parole, ed è dimostrato che molteplici errori vengono commessi (false memorie) sul recupero/identificazione di nuove parole (e.g. dottore) semanticamente relate al tema principale ma non presenti nella lista studiata.
Lo studio ha dimostrato che le aeree cerebrali maggiormente attive durante il recupero di false memorie comprendevano networks fronto-parietali, porzioni del cervello sottostanti ai meccanismi di controllo cognitivo top-down. La letteratura scientifica identifica, nell’ambito delle false memorie, le aree frontali del cervello dedite alla valutazione e monitoraggio delle parole tema, che inoltre si attivano maggiormente quando aumentano l’incertezza e la difficoltà di una decisione in merito ad un giudizio mnemonico; invece, le aree parietali sottendono quei meccanismi di tracciamento della familiarità di uno stimolo con la parola tema. Tale studio rivela quindi che il recupero del falso ricordo è legato ad un’attivazione maggiore, rispetto ai ricordi veri, di quelle aree cerebrali frontali che sottendono funzioni di monitoraggio e valutazione del contesto tematico.
Come specificato precedentemente, oltre al contenuto, è possibile manipolare la valenza emotiva dei ricordi. Questo principio è infatti alla base di diversi trattamenti all’interno della psicoterapia, come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), ove si cerca, attraverso diverse tecniche, di condurre il paziente a rielaborare esperienze traumatiche dentro schemi più adattivi. Le neuroscienze cognitive e affettive hanno fatto un ulteriore passo avanti, implementando delle tecniche di stimolazione cerebrale non invasive, che permettono di migliorare la rielaborazione emotiva dei ricordi.
Un recente studio di Doering e colleghi (2021) ha dimostrato che stimolando la porzione dorsolaterale della corteccia prefrontale destra (dlPFC) in concomitanza all’utilizzo di tecniche terapeutiche, è possibile indurre i soggetti a rielaborare un ricordo negativo più velocemente e con migliori risultati rispetto all’utilizzo di sole tecniche psicoterapeutiche. Sembra fantascienza? Un po’ sì.
Tutto quello che abbiamo detto può sembrare effettivamente fantascienza, ma come sempre dobbiamo mettervi in guardia dall’eccesso di entusiasmo. È possibile affermare, in riferimento agli studi e alle tecniche sopra citate, che è possibile manipolare il contenuto e la valenza emotiva dei ricordi, ma allo stesso tempo bisogna prendere atto che c’è un grado di fallibilità dell’iter procedurale e nelle tecniche utilizzate.
In primis, le tecniche suggestive non garantiscono sempre la certa riuscita della manipolazione, il che limita molto la riproducibilità dell’esperimento: infatti, alcuni studi riportano percentuali molto basse (quello di Pezdek, e colleghi del 1997, ad esempio, riporta addirittura lo 0% di efficacia); questo potrebbe essere dovuto ad una elevata variabilità delle tecniche nonché dei fattori individuali dei soggetti esaminati. Inoltre, le stesse tecniche di stimolazione cerebrale si trovano ancora in fase di sperimentazione: parlando di soggetti sperimentali umani, non c’è modo di avere carta bianca. Innanzitutto, le tecniche di stimolazione non possono raggiungere zone profonde del cervello, e quindi, in diversi casi, bisogna stimolare zone superficiali che siano collegate funzionalmente (e dunque in via del tutto teorica) a quelle aree target. Nello studio sopra citato per esempio, viene stimolata la dlPFC per cercare di raggiungere un’area sottocorticale più profonda (l’amigdala) che si occupa della elaborazione emotiva dei ricordi. Oltre questo primo problema, i protocolli delle tecniche di stimolazione non sono ancora perfettamente standardizzati e quindi in letteratura si hanno risultati ed interpretazioni che non sono sempre allineati.
Bibliografia e References:
[1] Camina, E., & Güell, F. (2017). The Neuroanatomical, Neurophysiological and Psychological Basis of Memory: Current Models and Their Origins. Frontiers in Pharmacology, 8. https://doi.org/10.3389/fphar.2017.00438
[2] Gilboa, A. (2004). Autobiographical and episodic memory—one and the same? Neuropsychologia, 42(10), 1336–1349. https://doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2004.02.014
[3] Scoboria, A., Wade, K. A., Lindsay, D. S., Azad, T., Strange, D., Ost, J., & Hyman, I. E. (2016). A mega-analysis of memory reports from eight peer-reviewed false memory implantation studies. Memory, 25(2), 146–163. https://doi.org/10.1080/09658211.2016.1260747
[4] Kurkela, K. A., & Dennis, N. A. (2016). Event-related fMRI studies of false memory: An Activation Likelihood Estimation meta-analysis. Neuropsychologia, 81, 149–167. https://doi.org/10.1016/j.neuropsychologia.2015.12.006
[5] Doerig, N., Bohlender, R., Moisa, M., Seifritz, E., Ruff, C., & Kleim, B. (2021). Enhancing Reappraisal of Negative Emotional Memories With Transcranial Direct Current Stimulation. https://doi.org/10.21203/rs.3.rs-140343/v1
[6] Pezdek, K., Finger, K., & Hodge, D. (1997). Planting False Childhood Memories: The Role of Event Plausibility. Psychological Science, 8(6), 437–441. https://doi.org/10.1111/j.1467-9280.1997.tb00457.x