Perché si parla della nostra attuale situazione storica come dell’era della “Crisi climatica”?. Lo sapevamo già da tempo che il nostro stile di vita collettivo non era granché sostenibile, eppure abbiamo preferito non prendere seriamente la questione. Ora però, ci troviamo nel mezzo di questa crisi senza capire neanche come ci siamo arrivati, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da incolpare per questa dimenticanza. La crisi climatica ha irrotto nelle nostre vite in modo inaspettato e sconvolgente, rendendoci incapaci di comprenderla nonostante i suoi presupposti e esiti fossero già noti da tempo. Da un lato è di certo il pianeta ad essere entrato in crisi, come dimostrato dalle sempre più numerose catastrofi ambientali, dalle estinzioni di varie specie, dai preoccupanti fenomeni di siccità.
Sotto altri aspetti la crisi climatica è anche una nostra crisi, quella di chi esce per la prima volta dalla caverna platonica e vede l’orripilante verità da cui si teneva al riparo. Non si tratta solo di essere inevitabilmente coinvolti in questa faccenda a causa della possibilità della nostra estinzione, ma si tratta di una crisi anche perché è il risveglio di una sensibilità, quella verso l’ambiente, che in passato non ha spiccatamente dominato in ambito decisionale. Privati di punti di riferimento ripensare al nostro rapporto con ciò che ci circonda è l’unico punto di partenza possibile. Potremmo chiederci: “Perché non ci abbiamo pensato prima?” Dove l’uso del verbo “pensare” è del tutto voluto e non un semplice “modo di dire”. E’ quello che cercheremo di chiarire in questo articolo, e la risposta è più complessa del previsto.
Nei secoli precedenti al nostro i più celebri filosofi moderni hanno pensato e scritto riguardo a temi molto vicini alla nostra contemporaneità. Tutto scaturisce dalla divisione fatta fra Storia naturale e Storia umana, operata nel tempo da diversi filosofi come Vico, Marx, Hobbes. Questa distinzione, che ci può sembrare del tutto innocua e compiuta a scopo di organizzare e categorizzare la realtà, è il vero il fulcro problematico del nostro rapporto con l’ambiente.
Noi, nati nell’era moderna siamo in un certo senso “figli” di questa lunghissima tradizione, che si è perpetrata inviolata nei secoli e che solo ora stiamo iniziando a mettere in discussione. La convinzione di cui questa differenza è portatrice, è che quando si parla di Storia si parla solo di ciò che può essere compiuto da esseri umani come agenti singoli e collettivi. Cause ed effetti devono essere completamente riconducibili all’uomo per poter parlare di “produzione di storia”. Marx nella sua emblematica frase diceva: “Gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno in modo arbitrario”. Secondo questa prospettiva, si può conoscere (in senso epistemico) solo ciò che si fa. Come sosteneva Hobbes, posso dire di conoscere le istituzioni civili come le leggi e le forme di governo, in quanto la sua causa efficiente (l’uomo stesso) sono rintracciabili.
Più controverso è chiedersi quale sia la causa efficiente della natura: cosa o chi ha creato la natura? Ci troviamo di fronte ad una questione che ha bloccato diversi pensatori prima di noi, il fatto che la natura ci precede temporalmente e che di certo non siamo stati noi a crearla. A causa di questa radicale differenza molti filosofi del tempo non hanno voluto porre la natura sullo stesso piano della storia. La storia naturale e la storia umana hanno proprietà differenti, e per questo vanno considerate e studiate in modo diverso. Questa divisione è da un lato del tutto lecita per non confondere le acque: la fisica e la chimica non possono certo essere studiate e considerate attraverso gli stessi metodi che si usano in storia dell’arte e in filosofia. Da un altro lato è una divisione che assunta nettamente è pericolosa.
La genesi del pensiero che abbiamo appena ripercorso è responsabile della divisione della nostra realtà in due emisferi: quello delle cose naturali e quello delle cose umane. Si tratta di due “mondi paralleli”, che procedono nelle loro diversità senza curarsi più di tanto l’uno dell’altro. Gli umanisti da un lato e gli scienziati dall’altro. È come se per un periodo di tempo ci fossimo scordati di chiarire quali fossero i rapporti fra questi due “mondi” che sono evidentemente intrecciati e in nessun caso due rette parallele.
Tracce evidenti di questa idea le ritroviamo anche nelle parole di Collingwood, un’influente storico e filosofo della storia del novecento: “lo storico non è interessato al fatto che gli uomini mangino, dormano e facciano all’amore e così soddisfino i loro appetiti naturali; ma è interessato ai costumi sociali che essi creano col loro pensiero come una struttura entro cui questi appetiti trovano soddisfazione in modi sanzionati dalla convenzione e dalla moralità.” Nei “costumi sociali creati dal pensiero” non rientrano, secondo questa visione, quelli che l’uomo intrattiene con l’ambiente circostante. Le parole di Collingwood sono cristalline e anche se ora come ora ci sembrano assurde e antiquate è proprio da questo che nell’ultimo ventennio, e ancora oggi, stiamo cercando di liberarci.
Che ne è quindi della scienza, di colei che si occupa proprio di studiare la natura? Il ruolo della scienza è determinante in tutto questo discorso in quanto costituisce il ponte comunicativo fra facoltà umane e natura, fra storia umana e storia naturale. La scienza lavora a partire dalla natura, ma lo fa in modo sostenibile?
Sempre tenendo lo sguardo puntato sul nostro passato possiamo dire di aver guardato alla natura come un grande insieme di risorse da sfruttare. Nella sua apparente stasi ci si è offerta in tutta la sua potenzialità e gran parte della nostra ricerca scientifica e tecnologica si è incentrata sul cercare di far fruttare queste risorse. Se guardiamo le cose dal nostro punto di vista, possiamo essere soddisfatti, ci siamo riusciti bene. Se invece assumiamo il punto di vista ambientale vediamo solo la ferocia e la noncuranza con cui abbiamo perseguito il famigerato sviluppo tecnologico. Esattamente come abbiamo diviso “cose” della natura da “cose” umane, allo stesso modo abbiamo scisso la nostra visione del mondo in “cose che ci sono utili” e in “mezzi per raggiungere gli utili”. Siamo riusciti a proiettare noi stessi, i nostri metodi e i nostri interessi su un “mondo” che ci sembrava non in grado di risponderci, pensando che anche questa volta quella fosse solo storia nostra: nostra l’azione nostra la reazione.
Il problema ha quindi una natura bifronte: da un lato deriva da questa divisione indebitamente rigida fra mondo naturale e mondo delle “cose umane”, dall’altro lato sta nel modo in cui abbiamo istituito dei “ponti” di comunicazione fra questi due emisferi, sviluppando una scienza che dice di avere come interesse la Natura ma che applica i suoi metodi non vedendone obbiettivamente i suoi bisogni.
E’ finito il tempo in cui la natura si offre come rifugio idillico lontano dal frastuono delle città, in cui i cicli naturali ci riportano ad una sorta di tranquillità originaria, in cui comunque vada nelle nostre vite la “primavera arriverà”.
Curiosa e calzante è l’affermazione di Stalin: “L’ambiente geografico è, incontestabilmente, una delle condizioni permanenti e necessarie dello sviluppo della società e naturalmente influisce su questo sviluppo, accelerandone o rallentandone il corso. Ma la sua influenza non è un’influenza determinante, perché i cambiamenti e lo sviluppo della società sono di gran lunga più rapidi che i cambiamenti e lo sviluppo dell’ambiente geografico.” La natura rimane quindi sullo sfondo e procede così lentamente che sarebbe addirittura “fuori dal tempo”.
Arriva un momento, come segnalato dai climatologi contemporanei, in cui l’ambiente nel suo complesso può a volte raggiungere un punto di non ritorno in cui ci il tempo della natura irrompe violentemente nel tempo della storia. Quando due emisferi tenuti forzatamente separati da un idea si incrociano, tutto si trasforma con una velocità allarmante, i tempi si riuniscono e diventano un singolo spaventoso tempo accelerato pieno di conseguenze poco rassicuranti. In questa unione temporale diventiamo contemporaneamente esseri storici, esseri biologici ma soprattutto agenti geologici dice Oreskes: “Negare che il riscaldamento globale sia un fatto reale significa negare che gli esseri umani siano diventati degli agenti geologici in grado di cambiare i più fondamentali processi fisici della Terra”. Secondo questa idea quindi l’uomo non è prigioniero del clima ma è l’uomo che crea il clima.
Ecco come la distinzione fra storia naturale e storia umana visto sopra collassa su sé stessa e si mostra in tutta la sua fragilità. Se poteva avere un senso in passato pensare che l’uomo non avesse nulla da spartire con l’ambiente circostante, da quando abbiamo creato le centrali nucleari questo discorso non può più essere valido. Definirci enti geologici e non più solo biologici ha delle conseguenze parecchio importanti: Mentre enti biologici ci nasciamo, agenti geologici lo siamo diventati con il nostro fare, con la creazione di tecnologie che ci avvantaggiano nel quotidiano ma che pesano fortemente sull’ambiente. Continua Oreskes “Possiamo diventare agenti geologici individualmente e collettivamente quando cioè abbiamo raggiunto numeri e inventato tecnologie che hanno una scala abbastanza grande da avere un impatto sul pianeta stesso” definirci come agenti geologici è diventato possibile nel momento in cui abbiamo raggiunto una potenza e potenzialità tale da poter veramente influire sul clima stesso.
C’è una grande parte della ricerca scientifica che già in tempi non sospetti studiava il fenomeno del cambiamento climatico, pubblicava ricerche e rilasciava interviste sulla minaccia che questa rappresentava[MB1] . Come riportato da UPI (agenzia di stampa statunitense) i ricercatori dell’università di Berkley, del MIT e della Nasa hanno revisionato circa 17 modelli sul cambiamento climatico prodotti fra il 1970 e 2000; 14 di questi erano accurati nella previsione delle temperature raggiunte in questi anni. Eppure perché questi studi non hanno avuto la risonanza che invece avrebbero assunto qualche tempo dopo? Forse l’aspetto fondamentale è che quando la questione è emersa non ha trovato un substrato culturale in grado di decifrarla e di dargli un valore. Il fatto che queste scoperte non venissero divulgate o prese seriamente è sintomo del fatto che questo problema non veniva percepito come una minaccia. Ma perché? In parte proprio per le ragioni che abbiamo illustrato in questo articolo, perché il nostro modo di pensare non poteva concepire la natura come capace di una simile minaccia.
La sfida che ci troviamo a dover affrontare al giorno d’oggi non ha che fare solo con manovre economiche, per quanto fondamentali. Si tratta di risemantizzare il nostro presente storico, dotarlo di un senso che permetta di fronteggiare questa incapacità collettiva di capire e affrontare il problema della crisi climatica. Lo sguardo deve andare oltre il suo campo visivo abituale, uno sguardo che non può più essere “protetto” dai confini nazionali, ma che diviene globale. Siamo capaci di pensarci come umanità? Siamo capaci di trascendere dagli interessi politici ed economici nazionali per salvaguardare l’ambiente? Si tratta di riassortire del tutto i concetti che da secoli reggono il nostro vivere in società: l’appartenenza ad una nazione, l’attenzione non solo per ciò che è a nostro vantaggio ma anche a vantaggio di ciò che ci circonda, la capacità di sviluppare un ingegno che crei finalmente un dialogo sensato fra le opere umane e le opere naturali. Queste sono le fondamenta senza le quali non è possibile credere di intraprendere uno sviluppo solido ed efficace.
Bibliografia e articoli per approfondire:
Dipesh Chakrabarty “Clima, Storia e Capitale”