“Quante volte poi il riposo notturno mi fa credere vere tutte queste cose abituali, ad esempio che io sono qui, che sono vestito, che sono seduto accanto al fuoco, mentre invece sono spogliato e steso tra le lenzuola! Come se poi non mi ricordassi che anche altre volte nel sogno sono stato ingannato da simili pensieri; e mentre considero più attentamente tutto ciò, vedo che il sonno, per sicuri indizi, non può essere distinto mai dalla veglia con tanta certezza che mi stupisco, e questo stupore è tale che quasi mi conferma l’opinione che sto dormendo.”[1]
Con queste parole Renee Descartes, il primo filosofo della moderna gnoseologia (la disciplina della conoscenza umana) ammette che l’uomo, da sempre e per sempre, è fatto di dubbio. Non ci sarebbe migliore descrizione per appiattire l’ego dei moderni scienziati che, a distanza di secoli, proclamano a gran voce l’invincibilità della Scienza. Abbiamo un altro articolo in cui rimettiamo a posto la scienza nel regno dell’humilitas: in questo testo, invece, vogliamo concentrarci sui suoi paradossi.
Cartesio, nella metà del 1600, comincia un percorso tortuoso e pericolante nei meandri della mente, che oggi potremmo definire simile ad un processo di introspezione meditativa simil-orientale. Scrive su un diario ciò che, attimo dopo attimo, gli passa per la testa, iniziando col mettere in dubbio la realtà dei fatti e della sostanza. Ben presto, il dubbio cartesiano investe un ambito sconosciuto e paradossale, molto caro ai moderni neuroscienziati: la capacità di percepire la realtà con i sensi. Dice:
“Sono dunque così legato al corpo e ai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non c’è assolutamente niente al mondo, che non c’è il cielo, che non c’è la terra, che non ci sono spiriti, che non ci sono corpi. Non è forse vero quindi che anche io non esisto?”[1]
L’uomo è un corpo, è legato indissolubilmente alla materia, alla realtà sensoriale. La sua stessa esistenza è determinata da un circuito di materia: i vestiti che indossa, la casa in cui abita, la pelle che lo riveste. Senza tutti questi attributi, senza la realtà che lo circonda, l’uomo potrebbe benissimo non esistere. Il dubbio cartesiano, passando per la negazione della realtà fisica, lo porta ad una considerazione della vita puramente materialista. Infatti, se dubitando della realtà fisica del mondo che ci circonda arriviamo a dubitare della nostra stessa esistenza, significa che siamo anche noi istanze puramente materiali. Questa idea, per quanto abbia fatto emozionare qualunque scienziato seguace del biologismo puro, verrà subito ritrattata da Cartesio. Non è possibile, non esiste! L’uomo non può ridursi a mera istanza materiale (almeno, non nell’epoca cult della religione cristiana).
Cosa siamo, dunque, se non corpi? Cartesio trova la scappatoia, e partorisce la sentenza che ancora oggi è ancora capofila nelle bio di Instagram dei 2005: cogito ergo sum. Ma cosa intende esattamente?
“Dopo aver vagliato in maniera accuratissima tutti gli aspetti del problema, alla fine bisogna ritenere valido questo: la proposizione “Io sono, io esisto”, ogni qual volta viene da me espressa o anche solo concepita con la mente, necessariamente è vera. […] Ma che cosa sono dunque? Una cosa che pensa. E che cos’è essa? Certo una cosa che dubita, comprende, afferma, nega, vuole, disvuole, immagina anche e percepisce.”[1]
Un attimo, perché con queste parole le cose cambiano eccome. Questo significa che 1) l’uomo non è puro corpo o materia (bensì pensiero), 2) l’uomo non esiste per la materia, ma esiste solo perché la pensa. Così, Cartesio dimostra razionalmente la sua esistenza: l’unica cosa di cui non riesce a dubitare è il dubbio stesso, e chi dubita è proprio lui. Ma che forma ha il pensiero? Lo ha detto nelle quattro frasi qui sopra: è volontà, negazione, affermazione, immaginazione e percezione.
Le Neuroscienze vedono la luce con questa Meditazione.
Con l’ultima parola (percezione) Cartesio ha smosso un universo nascosto sotto la punta dell’iceberg e nemmeno se ne è reso conto. La percezione è uno dei principali argomenti di studio delle Neuroscienze, insieme alla sensazione. Percepire significa dare un senso alla sensazione: “se quest’ultima [la sensazione] è un dato semplice e soggettivo, la percezione è un atto conoscitivo complesso che unifica attivamente un insieme di sensazioni ascrivendole a un oggetto effettivamente presente”[2].
Cosa significa? Che non è possibile dividere la sensazione dalla percezione. L’idea, ovvero il pensiero, a cui Cartesio attribuisce anche la dimensione percettiva, non può che derivare dall’esperienza sensibile. Ecco che il suo dualismo comincia a vacillare, ma lui ancora non si sta ponendo il problema. Cosa succede allora? Un passo per volta.
Cartesio comincia a parlare della fonte del pensiero: la mente. Essa, a differenza del resto del corpo, è una res cogitans: una parte virtuale, pensante e distaccata dai sensi. Tutto ciò che concerne invece il corpo ha la peculiarità di esistere in quanto materia, e viene denominata res extensa (ciò che ha un’estensione, un corpo). Questa distinzione, la matrice fondante del dualismo cartesiano, mi fa arrabbiare. Sembra una scorciatoia, una fuga dalla pressione del dubbio: siccome dubitare del pensiero non è possibile, per tutto il tempo Cartesio finge che il pensiero sia staccato da chi pensa, che viva in una dimensione parallela. Così, l’uomo con il suo corpo se ne sta nel dominio della res extensa, mentre il suo pensiero continua a fluttuare nel mondo platonico delle idee.
Ma, se la mente è immateriale, e vale la definizione di percezione che abbiamo visto prima, come fa a desumere le sensazioni dal corpo e a comunicare le volontà al corpo?
Cartesio rimane intrappolato nelle sue stesse formulazioni: il sé, per realizzare il pensiero, deve trovare una mediazione plausibile, un mezzo di comunicazione funicolare che unisca corpo e mente. Altrimenti, tutto ciò che facciamo risulterebbe un semplice errore casuale. Altrimenti, come ha detto lui stesso, la mente non potrebbe avere la capacità della percezione. Qui colpo di scena: Cartesio usa questi intricati ragionamenti per postulare l’esistenza di Dio, come il fondatore dell’idea primaria di sé, l’idea innata.
“tutte le cose che concepisco in maniera chiara, e che comprendono – questo io so – in sé qualche perfezione, ed anche forse altre innumerevoli perfezioni che ignoro, o formalmente o eminentemente si trovano in Dio, perché l’idea che ho di lui sia la più vera, la più chiara e distinta di tutte quelle che sono in me.”[1]
Dio potrebbe essere il mezzo di comunicazione tra res extensa e res cogitans? L’intermediario che permette all’uomo di esistere come essere duale? Cristianamente parlando, sembra una bella soluzione: un escamotage semplice con tanto di salvata dalla scomunica. Ma la verità è un’altra, e Cartesio ci arriva anni dopo la scrittura delle Meditazioni metafisiche, nel trattato Le Passioni dell’Anima. Qui, l’ultimo Cartesio cambia tutto: l’uomo rimane un essere fallibile, soggetto al giudizio fallace, ma trova la sua connessione tra materia e spirito. La scopre ragionando sulle passioni: esse sono ciò che muove il corpo, e sono intrinsecamente contenute nell’anima, nello specifico in quella zona della mente che si mette in compenetrazione col corpo: la ghiandola pineale (ipofisi). Cartesio sta dando un nome e una collocazione fisica al portale che connette l’anima al corpo, e – spoiler – non è Dio, ma una ghiandola endocrina.
Oggi, a distanza di secoli, sappiamo che questa chiave non si trova in un luogo fisico del cervello: è il cervello stesso.
L’errore fondamentale di Cartesio, come dice Damasio[3] nel suo saggio, è la distinzione dicotomica tra mente e cervello. La mente è il luogo del pensiero, ma è astratto e intangibile, mentre il cervello è il posto fisico della ghiandola pineale.
Con la nascita delle Neuroscienze, invece, il cervello acquisisce una dignità nuova, che inizia nel momento in cui Cartesio pone nell’ipofisi il portale d’accesso alla mente. Quel portale, da piccola fessura della dimensione di una noce, si allarga sempre di più, fino ad essere identificato con l’intera massa cerebrale.
Adesso sappiamo che mente e cervello sono la stessa cosa e nemmeno ha senso parlare delle due facce della stessa medaglia, ma forse proprio di una sola medaglia. Secondo i neuroscienziati, il cervello è responsabile di: 1) emozioni, 2) sensazioni, 3) percezioni, 4) molte altre cose, tra cui memoria, programmazione, coscienza, personalità. Le facoltà che definiscono l’uomo sono racchiuse nella scatola cranica e non più nella sola ghiandola pineale.
Ma cosa cambia? Con queste premesse vi sareste aspettati la svolta epocale… eppure, di fatto, con l’avvento delle Neuroscienze si capisce ancora meno. I dubbi amletico-cartesiani rimangono: cosa ci dice che tutta la realtà non sia il frutto di un artificio elettrico dei neuroni? Tutti i processi sensoriali, di fatto, vengono tradotti nel cervello in correnti ioniche. La sensazione di dolore? Attivazione dei nocicettori per la via spino-talamica. La percezione della paura? Attivazione dei neuroni dell’amigdala. Vedere il mondo? Attivazione dei fotorecettori della retina. Di lì in poi, sappiamo quasi tutto sul funzionamento di queste correnti elettriche neuronali. Quando arriviamo al di là della sensazione, però, la situazione si fa sempre più complicata.
Kandel, ormai nel 2000, vinse il Nobel per la Medicina spiegando i meccanismi molecolari della memoria. Oggi, a distanza di più di un ventennio, ci stiamo interrogando sempre più finemente sulla rivelazione dei processi biologici sottostanti le funzioni cognitive superiori (il pensiero, la coscienza, la consapevolezza, la personalità, quelli che chiameremmo percezioni cartesiane), ma esse rimangono ancora – ahimé – dominio del cognitivismo. Tutto ciò che si può fare è studiare dall’esterno, come fossero marionette, i casi di lesioni cerebrali, o le abilità cognitive sotto stimolazioni particolari e specifiche. Sono studi interessanti solo ad una prima impressione: per il resto, molto frustranti. Se vogliamo toccare con mano un cervello umano, possiamo farlo solo da morto, e i morti non pensano (o forse sì?). Oppure, possiamo dedicare la ricerca (come noi neurobiologi) alla dissezione di ippocampi di ratto.
Cartesio mi ha insegnato una cosa: la fallibilità della scienza umana. Da aspirante neuroscienziata spero ogni giorno che la dicotomia cartesiana sparisca una volta per tutte dalla faccia delle facoltà universitarie. Le Neuroscienze sono una materia nuova e complessa e vengono trattate come spicchi di una torta: un pezzo nel dipartimento di Psicologia, un pezzo a Medicina e il resto a Biologia.
La verità sottostante all’enorme difficoltà dell’insegnamento di questa materia, però, si trova proprio nel dubbio cartesiano: è possibile, davvero, che un cervello studi sé stesso? Se noi siamo il nostro cervello, se lì risiede effettivamente il nucleo della nostra volontà, negazione, affermazione, immaginazione e percezione… come possiamo pretendere dal cervello uno sguardo oggettivo su sé stesso?
Che esso sia il luogo fisico dell’anima (intesa come sede dei sentimenti[2]) e della mente, è stato più volte ribadito: lo dimostrano i casi di lesione cerebrale che modificano nettamente la personalità dei pazienti (vedi il famosissimo caso di Phineas Gage), proprio come se il cuore pulsante del loro essere, di fatto, si trovi in quella parte di corteccia. Così, abbiamo criticato Cartesio per la pretesa del dualismo, ma di fatto stiamo tornando ad approcci scolastici estremamente meccanicistici. Tutto ciò che sappiamo lo possiamo dedurre dal comportamento dei potenziali d’azione e da qualche movimento di ioni calcio intracellulari. Anche la personalità e l’anima, così, stanno tornando al riduzionismo della materia grigia. Ma siamo sicuri che tutto ciò sia meglio? Che questa consapevolezza, un po’ amara, renda più semplice la ricerca? Io, come Cartesio, ho i miei dubbi, e spero di averne lasciati anche a voi.
Bibliografia e fonti
[1] Renee Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di L. Urbani Ulivi, Milano, Bompiani, 2001
[2] Enciclopedia online Treccani, voce: percezione.
[3] Damasio, A. (1995). L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Milano: Adelphi edizioni.
[4] Oxford Languages