Quando si parla di linguaggio, si accede ad uno dei misteri più occulti della nostra mente. Pensa a quello che stai leggendo in questo momento… si tratta di una serie di parole scritte, che vengono decodificate da un sistema cerebrale complesso di natura visiva. Niente a che fare con il linguaggio, in effetti. Ma prova ora a leggere ad alta voce: qui la parola c’entra, e i processi mentali coinvolti sono completamente diversi. Probabilmente, un neuroscienziato cognitivo ti dirà che stai accedendo anche all’area della corteccia preposta alla codifica uditiva, mentre prima si stava accedeva alla corteccia occipitale visiva. Eppure, il processo mentale della lettura sembrava lo stesso: la frase rimane tale sullo schermo, e tu non ti accorgi di cosa cambia se la leggi ad alta o a bassa voce. Tutto ciò dimostra in poche parole il gap immenso che esiste tra come funziona il cervello e quello di cui noi effettivamente ci accorgiamo.
Secondo te, il pensiero equivale al linguaggio? La risposta è no. Il pensiero può anche rimanere inespresso, non essere mai tradotto nella lingua comprensibile all’uomo. Se vogliamo, il linguaggio è una gentile concessione del nostro pensiero all’ascoltatore. Per pensare non servono le parole, mentre per articolare delle parole serve sia il pensiero sia il supporto fisico (il sistema fonatorio) per esprimerlo. Ecco che il linguaggio accresce la sua gerarchia di complessità: pensare, ascoltare, riprodurre. Tre meccanismi che al cervello costano davvero tanta confusione.
Prima di addentrarci nell’amletica questione “parlare o ascoltare”, partiamo da un livello inferiore. Pensa ora a tutti gli step che dobbiamo considerare per permettere al nostro cervello di parlare. Niente panico: le aree deputate sono fondamentalmente due, e su di esse ci soffermeremo per comprendere i network che governano il complesso mondo della comunicazione umana.
Le due famosissime aree deputate al linguaggio sono l’area di Broca e di Wernicke. Procediamo con ordine. Quali sono le due principali funzioni del linguaggio umano? Se ci pensi bene, possiamo fare due cose: ascoltare e parlare. Appare evidente già così che si tratta di due processi distinti, e difatti vengono tradizionalmente associati a queste due zone del cervello: Broca e Wernicke, rispettivamente “l’area della parola” e “l’area dell’ascolto”.
L‘area di Broca si trova nel lobo frontale del cervello, guarda caso proprio sotto la corteccia motoria. Perché? Pensaci un attimo: per parlare serve la lingua (e non solo). I muscoli facciali non si muovono da soli, serve un impulso nervoso che parte proprio dalla famosa area motoria. E, ancora più interessante, la zona intorno all’area di Broca è famosa anche per la presenza cospicua di neuroni specchio: imparare a parlare significa quasi sempre agire per imitazione.
La prima cosa che possiamo chiederci parlando delle aree del cervello associate alla parola è se il linguaggio sia un fenomeno naturale o meno. Moltз, in passato, sostenevano la culturalità del linguaggio, dicendo che si tratta di un processo sempre appreso e mai innato. La spinta culturale del linguaggio è evidente, ma se ci pensi bene la forzatura si riscontra solo nell’apprendimento, non nella propensione alla parola: quella, al contrario, è e sempre sarà presente nella natura dell’uomo (e, potremmo dire, non solo).
Lз bambinз cominciano a mostrare la loro propensione alla parola quando, verso i 5 mesi di vita, provano a comporre i primi suoni. Il carattere innato della lingua si manifesta con prepotenza in fenomeni che hanno del soprannaturale: avete presente l’incapacità del3 cinesi di distinguere il fonema /r/ da /l/? Bene, questa caratteristica linguistica è l’esempio più fulgido di apprendimento culturalmente indotto: col passare del tempo, per via delle pressioni dell’ambiente circostante, le lettere diventano indistinguibili – banalmente, non esiste alcuna r nel parlato cinese, dunque il cervello in apprendimento la elimina dal vocabolario. Ma, pensate un po’, lз bambinз cinesi sono ancora in grado (fino ai 10 mesi) di pronunciare entrambe le consonanti.
Questa caratteristica soprannaturale dimostra da un lato il carattere innato del linguaggio, dall’altro la pressione selettiva caratteristica dell’ambiente in cui si vive. Abbiate un po’ di ansia quando dovrete rendervi responsabili dell’educazione linguistica di unǝ bambinǝ: tutto ciò che insegnate viene assorbito dal cervello infantile come una spugna, ma per fortuna non tutto ciò che togliete viene sottratto per sempre.
Con queste premesse, nel 1959 il famoso linguista Noam Chomsky propose l’esistenza di un circuito cerebrale innato che garantisse l’appredimento spontaneo del linguaggio: sul come biologicamente ciò avvenisse, non rese esplicita alcuna informazione, ma le ipotesi al riguardo ancora oggi si fanno strada tra i cognitivi della linguistica.
Circa 7 milioni di anni fa sia la specie umana che lo scimpanzé si sono evoluti a partire da un antenato comune. Poi, a partire dalla diversificazione dei due progenitori, l’essere umano ha cominciato ad evolvere abilità diverse, insieme alla capacità di parlare.
Che sia per via della necessità evoluzionistica di comunicare con gli altri membri della specie al fine di scambiare cibo e informazioni, l‘Homo habilis (2,5 milioni di anni fa) diede avvio alla selezione darwiniana delle capacità linguistiche. Come molte altre caratteristiche tipiche dell’essere umano (la posizione eretta o lo sviluppo delle tecnologie), il linguaggio venne scelto e conservato come carattere necessario alla sopravvivenza. Passando per l’Homo erectus e il Sapiens, il cervello umano ha cominciato ad assumere la forma che conosciamo oggi, con un notevole sviluppo delle aree cerebrali predisposte al linguaggio che risulta evidente negli studi paleo-neurologici.
Ma ora torniamo a noi. Abbiamo già accennato a quali aree del cervello siano preposte alle funzioni del linguaggio. Tieni sempre presente che, non potendo fare studi sul linguaggio negli animali, a differenza di molte altre situazioni sperimentali, è particolarmente difficile avere materiale di studio in vivo sull’uomo. Spesso dobbiamo affidarci allo studio di soggetti che hanno subito lesioni cerebrali nelle aree del linguaggio: quella di Broca e di Wernicke. Studiare gli effetti sulla capacità linguistica di questi soggetti può essere estremamente stupefacente, oltre che estremamente difficile. Adesso analizzeremo insieme alcuni casi di perdita delle normali funzioni cognitivo-linguistiche, per dedurne delle interessanti considerazioni sull’uso del linguaggio nel nostro cervello e – forse – comprendere meglio se il cervello sia predisposto a parlare o ascoltare.
Cominciamo con l’area di Broca: quella che abbiamo visto essere predisposta alla produzione linguistica, al “parlare” vero e proprio. Un soggetto che presenta afasia di Broca non sa fare l’analisi sintattica della frase. Pensa a questa: “La ragazza dell’uomo che non è a casa è alla Polizia da stamattina“.
Un soggetto afasico non è in grado di comprendere quale sia il soggetto della frase, poiché fa confusione tra i periodi. L’effetto del parlato di un soggetto afasico è quello di una serie di parole che, singolarmente, vengono comprese, ma nel loro complesso frasale perdono ogni connessione con la realtà. È come se ogni parola venisse sradicata dal suo contesto e le frasi fossero solo un ammasso di parole sconnesse. Pensa che effetto può avere su queste persone la strutturazione di una frase compiuta. I pazienti con afasia di Broca, pertanto, non hanno difficoltà nell’udire una frase o parola, ma non sono in grado di riportarla personalmente a voce e i loro discorsi sono molto lenti e accidentati: come unǝ bambinǝ alle prime armi con la parola.
Passiamo ora a descrivere il fenomeno complementare, l’afasia di Wernicke. I soggetti affetti da questa patologia non riescono a produrre parole di senso compiuto, ma la differenza fondamentale è che le loro frasi sono – in maniera quasi incomprensibile – sintatticamente ben strutturate. Soggetti, complementi e predicati sono messi limpidamente al loro posto. Cosa non va? Le parole presentano fonemi invertiti, lettere aggiunte o sottratte, neologismi e invenzioni che hanno dell’originale e dell’assurdo. In sostanza, è difficile comprendere un soggetto afasico di Wernicke, nonostante il suo linguaggio sia nel complesso fluente.
Un’ulteriore forma di afasia che comprende un po’ entrambe le patologie è l’afasia di conduzione. Paradossalmente, nel complesso la capacità di esprimersi e farsi capire è migliore di quella presente nelle altre due forme afasiche. Tuttavia, il paziente non riesce correttamente a ripetere le parole che gli vengono richieste e a descrivere immagini di oggetti o situazioni. A volte, come gli afasici di Wernicke, utilizza delle parafrasie fonemiche, come gli afasici di Broca, riesce a formare frasi semplici ma sconnesse sintatticamente.
Riportiamo a questo proposito una tabella (Kandel) che mette insieme tutti gli effetti delle tre afasie su pazienti reali, cui è stato chiesto di rispondere a semplici quesiti.
Tabella 1. Riadattamento da quella presente a pag 1164 di “Principi di Neuroscienze” (Kandel, III edizione italiana), con esempi gentilmente offerti da Università Vita Salute san Raffaele e Università di Brescia.
Alla luce di tutto ciò che abbiamo visto, chiederci se sia più importante parlare o ascoltare torna ad essere una domanda quasi priva di valore: il nostro cervello è come una bilancia imperfettamente calibrata, possiede delle sezioni specializzate che dipendono dall’efficienza delle successive, e nessuna agisce da sola, ma interagisce sempre con altre. Potremmo affermare, con relativa scientifica certezza, che non ci sono aree più importanti di altre, ma solo aree funzionalmente predisposte ad uno specifico compito (e sapranno rispondere meglio ad uno specifico stimolo).
Ma – diciamoci la verità – la parità non esiste nemmeno nel cervello umano: la macchina è imperfetta, e si vede dai risultati delle diverse lesioni. Alcune sono più pesanti di altre e compromettono maggiormente il funzionamento delle abilità cognitive dei soggetti esposti.
Ora chiediamoci, a livello fattuale: quale dei pazienti avrà vita peggiore? L’afasia di Broca, sebbene ad un’analisi scientifica sembrerebbe la più grave, in quanto coinvolge la capacità di produrre una grammatica corretta, a livello evoluzionistico sembra meno pesante dell’afasia di Wernicke. Non stiamo facendo un confronto opinionistico, sia chiaro: ogni lesione comporta dei danni soggettivamente terribili, e lo scopo non è creare classifiche. Semplicemente sembra – ed è questa la terribile oggettività su cui lucra la scienza – che agli occhi di uno spettatore esterno una delle due lesioni sia più umanamente compromettente dell’altra.
Ora prova a guardare i due pazienti con lo sguardo giudicante di chi ha una presunta oggettività scientifica. Il paziente affetto da afasia di Wernicke, di fatto, ha introiettato delle regole grammaticali precise. Quello che non sa fare – e l’effetto è drammatico – è trovare i giusti suoni per comporre delle parole di senso compiuto. Per questo motivo, parlando dell’afasia di Wernicke, si dice che è una sorta di sordità alla parola (pure word deafness): il paziente sa parlare, ma non sente i suoni che emette, non processa e non controlla ciò che esce dalla sua bocca.
Ora fa’ un confronto con l’afasia di Broca: il livello di compromissione è il medesimo, ma ad un ascoltatore esterno risulterà molto più comprensibile un afasico di Broca. Si può dire che quest’ultimo abbia controllo sul suo parlato? Assolutamente no. Però il suo discorso, tutto sommato, è comprensibile, nonostante manchi completamente di cura sintattica. Cosa ne evinciamo? Che l’assenza di una grammatica corretta, quando sappiamo i concetti, non ci destabilizza quanto l’assenza di ascolto di ciò che diciamo. Dunque, paradossalmente, alla domanda se il nostro cervello sia nato per parlare o ascoltare, io personalmente risponderei: per nessuna delle due cose, prese da sole. Ma lo studio e l’analisi dei fenomeni di lesioni ci rende sempre più consapevoli che perdere una parte della consapevolezza non è la stessa cosa che perderne un’altra. Il cervello, come l’uomo, non è né perfetto né equo.
Bibliografia e fonti
Eric R. Kandel, J. H. (2014). Principi di Neuroscienze. Casa editrice Ambrosiana.